Tra maggio e agosto 1969 Pasolini girò, prevalentemente in Siria e in Turchia,Medea: era divenuto un regista di punta del cinema italiano e ciò gli procurò critiche di connivenza con il potere, poiché l'industria cinematografica rappresentava uno degli strumenti della omologazione di massa. Nel corso di una trasmissione televisiva a uno studente che gli rivolgeva appunto tali accuse, Pasolini rispose: "io strumentalizzo la produzione che c'è, la produzione che c'è strumentalizza me, vediamo un po', facciamo questo braccio di ferro, vedremo un po' di chi sarà la vittoria finale".
La partecipazione, nel ruolo di protagonista, di Maria Callas, presentata a Pasolini dal produttore del film, Franco Rossellini, venne considerata un evento straordinario, anche perché la famosa cantante lirica, dopo avere interpretato sulle scene dei teatri d'opera di tutto il mondo Medea, l'opera di Luigi Cherubini, aveva già ricevuto offerte, sempre rifiutate, per una interpretazione cinematografica del personaggio. Nacque tra Pasolini e la Callas una grande, affettuosissima amicizia che continuerà anche dopo la lavorazione del film.
Medea, interpretata da Maria Callas, è uno dei personaggi più emotivi, intriganti e più riusciti dell'intero lavoro cinematografico di Pasolini. La sua psiche è sapientemente analizzata ed è suddivisa in due alter-ego: quello brutale e violento di una donna dispotica, e l'altro debole e vinto dalle pulsioni emotive di una donna condannata dal fato. Basandosi sulla tragedia di Euripide e sulla realtà del periodo, Pasolini con questo film traccia un forte collegamento tra la leggenda mitica e brutale della Colchide con l'attuale realtà, alquanto fredda e turbolenta del 1969. Infatti in quel periodo in Italia abbondava la povertà e l'immigrazione e con ciò Pasolini voleva comunicare agli spettatori il rimorso e il dolore che provava un personaggio, re sicuro della sua terra, ora affranto, sperduto e confuso in terra straniera, come accade per Medea quando giunge con Giasone in Grecia. Particolarmente caratterizzante è la scena in cui Medea tenta invano di risollevarsi pregando gli dei della sua terra, senza ottenere risposta, tranne per quando dovrà compiere la sua vendetta contro lo sposo.
Sconvolgenti sono, oltre alla macabra scena di sacrificio di un ladro per furto, i momenti di tensione per le nozze di Giasone con Glauce e l'assassinio dei figli di Medea. Nella prima sequenza, al contrario del mito e del testo di Euripide, Pasolini induce Glauce a vergognarsi profondamente, umiliata dal senso di colpa che prova nell'aver rubato ad una donna, già affranta e in difficoltà per il distacco dalla sua terra, e per questo ella si uccide gettandosi da una scogliera.
Nella scena finale del film l'atmosfera raggiunge il massimo della suspense e dell'irreale, dato che Medea, anziché indugiare come nella tragedia, è perfettamente cosciente di dover compiere il sacrificio dei due figli per vendetta contro Giasone, tanto che, prima di celebrare il rituale, li lava e prega il dio Sole affinché le dia la forza. Sgozzati i due infanti, Giasone entra in scena, assistendo ad uno spettacolo di distruzione e fiamme, dove predomina solo la figura corrucciata di Medea, che lo maledice.
Pasolini descrive così una scena di Medea e parla della scelta della Callas quale protagonista del film: "Nel fondo di una di queste vallette - sul greto del fiume - c'è intorno il grano e file di pioppi e ulivi spinosi, argentei contro il rosa delle centinaia di cuspidi - cammina verso di me e si imprime violentemente nella mia retina, una piccola folla assurda. Al centro c'è una figura femminile. Essa è coperta fino all'altezza del seno da un velo bianco, pende un mazzo di collane dorate, grossissime, che mandano un suono opaco, come i campanacci delle mandrie: penzolano, queste collane, su una 'pazienza' azzurra listata d'argento - sembra vecchissima, di quelle conservate nelle teche dei musei, che a toccarle, si direbbe che debbano andare in polvere. Sotto la pazienza cade una grande sottana nera: che viene sostenuta per i lembi da due o tre persone, attente a tenerla alta fin sopra il ginocchio della donna che l'indossa. Essa procede così come una regina non vista. Dietro di lei, viene un altro gruppetto del seguito: e tra questo, la fedele cameriera, vestita di rosso e di verde, che tiene per il guinzaglio i due magici cagnolini, innocenti come due insetti, due farfalline al loro primo svolazzare qua e là; e insieme decrepiti, di una saggezza di re contadini. E dietro ancora, con gli strumenti delle loro tecniche in mano, tutti gli altri". "Ho pensato subito a Medea sapendo che il personaggio sarebbe stato lei. Delle volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l'attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata lei, e quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione della Callas. [...] Cioè, questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un po' la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa".
Pasolini sintetizzò i contenuti di questa sua opera cinematografica anche in una intervista a Jean Duflot:* "Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. [...] Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione. [...] Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il 'tecnico' abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. [...] Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello 'spirito', fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due 'culture', sull'irriducibilità reciproca di due civiltà". Duflot gli chiese ancora se la narrazione mitica racchiudesse implicazioni storiche attuali, come in Edipo re, Il Vangelo secondo Matteo o Porcile. "[...] potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio", rispose Pasolini, "che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell'irreligiosità, nell'assenza di ogni metafisica, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un'illusione. Nulla si perde".
Oltre al gran numero di attori non professionisti, come di consueto presenti nei film di Pasolini, vi sono in Medea le presenze, in ruoli principali, del saltatore olimpico Giovanni Gentile (Giasone), di Massimo Girotti (Creonte), di Laurent Terzieff (il centauro). Elsa Morante, infine, collaborò con Pier Paolo Pasolini alla scelta delle musiche: brani religiosi antichi dal Giappone, canti e danze d'amore iraniani.
* Jean Duflot, a cura di, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Nico Naldini,Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989: da Jean Duflot sono tratte tutte le citazioni pasoliniane contenute in questa pagina (poi riprese da Nico Naldini nella sua essenziale biografia di Pasolini.
« Parole, colori, luci, suoni, pietra, legno, bronzo appartengono all'artista vivente. Appartengono a chiunque sappia usarli. Saccheggiate il Louvre! »
("Les voleurs", in La scrittura creativa, 1994, SugarCo, Varese, pag. 83)
La maggior parte dei lavori di Burroughs sono
semi-autobiografici e ispirati alle sue esperienze legate all'uso di droghe e
alla dipendenza da oppiacei, una
condizione che marcò gli ultimi cinquanta anni della sua vita. Legato
alla Beat Generation, ma per
sua ammissione molto lontano dalla realtà dei beatniks o hippies, ("Io i
fiori ai poliziotti li lancerei, ma con tutto il vaso e la terra." W.S.B),
fu un autore d'avanguardia che
influenzò la cultura popolare e la letteratura.
Burroughs viene spesso citato come scrittore
di fantascienza, non la
fantascienza con mostri o astronavi, ma un ramo poco frequentato, che usa non
lo spazio esterno ma lo spazio interno dell'uomo: gli esseri umani che agli
occhi visionari di Burroughs diventano mutanti, le città che si trasformano in
paesaggi metafisici, la percezione di forze occulte.
Pecora nera di una famiglia di ricchi, Burroughs,
liberatosi da regole e imposizioni, dedicò l'intera esistenza alle più svariate
sperimentazioni, ma in rare righe, sparse nella sua opera, trapela il dolore
per una famiglia che lo riteneva scomodo.
Stando aLa scimmia sulla
schiena, nel 1944-45 fece la prima conoscenza con fialette dimorfina, e dopo qualche mese divenne
tossicodipendente. Cominciò a comprare morfina ederoinacon
ricette mediche (all'epoca queste droghe erano vendute legalmente infarmacia), o al mercato nero. A volte per
mantenersi con la droga fece il rapinatore e lo spacciatore.
Perso il
sostegno familiare, William Burroughs lavorò prima come barista, poi come
operaio, finché aNew Yorksi
improvvisò reporter e giornalista ma finì anche con lo stringere
rapporti con criminali.
Nel
1943 conobbe Allen Ginsberg,
noto poeta della Beat Generation, con il quale ebbe anche una lunga
relazione, Neal Cassady e Jack Kerouac, che ammirandone la genialità lo
elessero loro padre spirituale.
«drogato
omosessuale pecora nera di buona famiglia[senza fonte]»
(William Seward Burroughs)
Nonostante
la sua omosessualità, si sposò due volte: la prima in Croazia con Ilse Kappler,
una ragazza ebrea, solo per farle ottenere il visto per gli Stati Uniti, e la
seconda volta con un’amica, Joan Vollmer, con la quale condivideva la passione
per le droghe. Con Joan decise di allontanarsi da New York per fermarsi a Città del Messico dove
scrisse il suo primo romanzo Junkie (La scimmia sulla
schiena). La parentesi messicana si concluse, però, in tragedia:
nel tentativo di imitare Guglielmo Tell, armeggiando una pistola invece
di arco e freccia, sparò e uccise la moglie; il figlio fu affidato ai genitori
dello stesso Burroughs, mentre lui s'imbarcò in un viaggio che lo condusse a
percorrere in lungo e in largo l'America Latina, fino a raggiungere l'Africa e fermarsi a Tangeri, in Marocco. Molti critici si chiedono ancora oggi
per quali motivi non fosse stato processato per uxoricidio.
«La
cosa più pericolosa da fare è rimanere immobili[senza fonte]»
(William Seward Burroughs)
A Tangeri fu raggiunto da Kerouac e Ginsberg, che
lo ritrovarono sommerso di fogli e frammenti di carta, sui quali lo scrittore
annotava pensieri sconnessi e deliranti, deliri non certo dovuti a pentimenti o
rimorsi tardivi. Kerouac e Ginsberg lo convinsero a riordinare questi scritti;
nacque cosìNaked Lunch (Pasto nudo),
pubblicato solo nel 1958, che lo rese una celebrità.
Niccolò Paganini (1782 – 1840) è senza ombra di
dubbio il più grande violinista della storia, ma non solo. Era anche un uomo strano, misterioso,
inquietante. Le caratteristiche che legano il famoso
artista al sovrannaturale iniziano quando è un bambino, all’età di sei anni,
quando fu considerato morto in seguito ad un violento attacco di morbillo: il
bambino fu avvolto nel sudario e cominciò il servizio funebre, quando,
inspiegabilmente ed all’improvviso, egli fece un piccolo movimento che venne
notato, e così sfuggì ad una sepoltura prematura. Miracolo? Qualcuno nell'Italia superstiziosa
di allora è sicuro di si.
Quando Niccolò cresce e diventa il genio che noi
oggi conosciamo, la gente inizia a far girare strane leggende su di lui. Il suo brillante modo di suonare viene
attribuito ad un "Faustiano" patto con il Demonio. Il compositore non negò mai queste illazioni,
anzi, fece di tutto per incoraggiarle. Magrissimo, pallido in modo cereo, a causa
della sifilide, e gli occhi rientrati nelle orbite; vestiva sempre di nero e si
presentava ai suoi concerti su di una carrozza nera a sua volta trainata da
quattro cavalli neri. Aveva perso tutta la dentatura a causa del
mercurio somministrato per curare la sifilide e la bocca gli era così rientrata
e naso e mento si erano avvicinati (come i vecchi senza dentiera). Quando
Paganini suonava sul palcoscenico doveva davvero sembrare ad uno scheletro in
frack con un violino incastrato sotto la mascella. Nonostante la sua brutta figura ebbe
moltissime amanti.
Grazie a tutte queste caratteristiche,
l’immagine di Paganini era molto attraente e tutti accorrevano a sentirlo, o
forse solo a vederlo. Ebbe un grande successo locale e internazionale. La sua
apparizione faceva lievitare il prezzo del biglietto d’ingresso e la sua
immagine era sfruttata per la vendita delle “caramelle Paganini”. Era in poche
parole una “star”. Tutto ciò potrebbe naturalmente stimolare
l’idea che la sua fama era dovuta più all’immagine e al suo virtuosismo che al
suo talento artistico nei panni di “creatore”. Ma ciò non è vero perché le sue
composizioni sono comunque molto originali e profonde.
Era dotato di una tecnica straordinaria e le
sue composizioni erano considerate
ineseguibili da un altro violinista. Era
velocissimo, compiva salti melodici di diverse ottave, eseguiva lunghi passi
con accordi che coprivano tutte e quattro le corde, alternava velocemente note
eseguite con l’arco e note pizzicate alla mano sinistra. Eseguiva anche
misteriosi e
spettrali armonici artificiali. Ogni tecnica era
portata all’eccesso e le sue violente esecuzioni finivano quasi sempre con la
volontaria e progressiva rottura delle corde e la conclusione del concerto
sull’unica corda superstite, quella di sol. Fra le sue composizioni più famose vi sono "Il trillo del Diavolo" e
"Streghe" ed un'altra leggenda macabra si anni da fra le corde del suo
violino, il suo Stradivari.
Si dice infatti che queste fossero state fatte con le interiora di una delle
amanti del musicista, che in preda alla follia si sia fatta uccidere in nome
della musica, così che la sua anima sarebbe stata un tramite fra i 2 mondi.
Ora quel violino appartiene al fenomenale musicista ungherese Edvin Marton, e a
questo link potete ascoltare la sua versione di "Paganini 5".
Nel letto di morte Paganini rifiuta l'estrema unzione Cattolica (infatti venne sepolto in terra consacrata molti anni più tardi).
'Paganini non ripete'
Tutti conoscono queste parole ormai famose in tutto il mondo, ma pochi sanno quando e dove sono state pronunciate per la prima volta.
E' il febbraio del 1818 e al Teatro Carignano di Torino Niccolò Paganini esegue uno dei suoi straordinari concerti. Tra il pubblico vi è anche Carlo Felice che, in seguito alla performance musicale del compositore, chiede la ripetizione di un brano.
Paganini, abituato ad improvvisare la sua musica e spesso -forse esagerando- lesionandosi i polpastrelli, decide di recare questomessaggio al futuro re di Savoia: "Paganini non ripete". Al musicista genovese, in seguito a questo 'incidente diplomatico', viene tolto il permesso di eseguire il terzo concerto, previsto dalla sua tournée.
Offeso dal regale gesto, decide di annullare i concerti programmati a Vercelli e ad Alessandria.
All'amico avvocato Germi scrive: "La mia costellazione in questo cielo è contraria. Per non aver potuto replicare a richiesta le variazioni della seconda Accademia, il Sig. Governatore ha creduto bene sospendermi la terza..." (25 febbraio 1818) "In questo regno, il mio violino spero di non farlo più sentire" (11 marzo 1818)
Non sarà così però, poiché nel 1836 ritorna a Torino e ringrazia Carlo Alberto per la concessione di legittimazione del figlio Achille.
Questa è la breve storia che ha determinato il successo di una della frasi più famose ereditate dal nostro passato. Paganini non ripete!
Artisti visivi ed errabondi legati al mondo dei rave party, i Mutoids hanno creste colorate e abbigliamento di origine dichiaratamente punk. Delle tribù migranti condividono la vita senza fissa dimora, lo spirito del clan, e le difficoltà, ogni volta, di trovare un luogo dove piazzare camion e sculture, tra la diffidenza della gente. Zingari metropolitani i Mutoids, quando non lavorano il ferro, organizzano feste rave nelle periferie urbane, in una commistione di suoni e forme rigidamente underground. Quegli stessi luoghi dove raccolgono il materiale fatto di pezzi di deriva urbana con i quali formano le loro sculture. Come i loro amici Spiral Tribe, i Mutoids hanno dovuto abbandonare l'Inghilterra dove la massiccia repressione contro ogni tipo di nomadismo e di festival spontanei li aveva messi al bando. In Italia però hanno trovato terreno fertile tanto che le loro opere evocatrici di lugubri spettri di archeologia modernista adesso adornano diverse discoteche e fanno da sfondo alla loro attività di travellers della musica.
I Mutoids si professano senza padri e senza radici, assicurano che il loro modo di vivere è bello nonostante lo stupore degli increduli. Sono nati a Londra nel 1985 e vengono più o meno tutti dalla scena del punk londinese. Hanno incominciato a fare teatro da strada, e delle sculture utilizzando materiale di recupero. La loro idea consiste nel far rivivere quello che gli altri buttano via, che siano pezzi di ferro da riplasmare o luoghi da far tornare a vivere, come le zone abbandonate dove nessuno abita più da tanto tempo, e dove invece è possibile ricreare spazi, atmosfere, relazioni.
Non tutti i Mutoids sono emigrati. Buona parte del gruppo, vive ancora in Inghilterra, spostandosi di accampamento in accampamento. Le persone che fanno parte del gruppo non sono tuttora le stesse, nel giro di cinque anni hanno gravitato nei M.W.C. ( Mutoid Waste Company)circa 60 persone. Attualmente sono un gruppo di 8-20 persone . Ogni volta che si spostano conoscono qualcuno che molto probabilmente continua il tour con loro.
Ho voluto mettere in luce l'attività dei Mutoids perché è poliedrica, ed è testimonianza di una cultura emergente, sotterranea, che mischia generi e umori, spesso affascinata da tutto ciò che è giudicato mostruoso, buio e alieno dalla morale comune. Accanto alle sculture, nei loro camion, i Mutoids si portano dietro alcuni sound systems, che possono montare e smontare dove vogliono, così, quando li chiamano, organizzano dei piccoli villaggi globali in cui c'è chi suona rock, chi fa la techno, mentre alcuni Mutoids sono specializzati in un tipo di musica molto particolare i cui strumenti sono dei bidoni vuoti di metallo. Vendono le sculture ai negozi, alle discoteche, ma il loro circuito musicale è un altro: è quello legato ai centri sociali e ai raves, dove la gente balla in mezzo ai loro mostri.
I mutoids sono praticamente sempre in tour. In Inghilterra non vivono in nessun posto fisso. Girano in continuazione con la loro carovana. Ogni tanto a Londra occupano degli edifici vuoti, che utilizzano per i loro shows e per viverci. Finito lo show si spostano nuovamente. Per i Mutoids il viaggio è la vita, sono collegati all'esperienza rave, sono cantori suburbani di desolazioni metropolitane e fughe tecnologiche, hanno lasciato l'Inghilterra nel 1990, quattro anni prima che la Thatcher con il CJA mettesse fuorilegge le feste rave e reprimesse duramente i travellers della musica. I Mutoids di Sant'Arcangelo hanno comunque deposto le armi. I loro mostri a sette braccia, con corpi di residui catalitici e le anime di lamiera, sono ormai quotati sul mercato e così i loro happenings, che si svolgono in locali ben organizzati e con tutti i permessi a posto. Schiavi comunque d'un cuore errante i Mutoids riprenderanno il cammino verso altre geografie, non si fermeranno ai locali, continuando a raccogliere lungo la strada i rifiuti senza fine della deriva metropolitana.
Non solo hanno assorbito a fondo la modernità, ma, addirittura, i Mutoid Waste Company si sentono già mutati: fisicamente, psichicamente e, di conseguenza, nel loro comportamento. Sono una tribù di creativi riciclatori, sono predicatori urbani mutanti, nomadi, per scelta: sono esempi viventi della "junk modernity". Meccanici artisti e artisti meccanici, per mezzo della mutazione del mondo circostante cambiano l'ambiente dove vivono. Scultura, musica e ritmi tribali, gente selvaggia, predicatori, performer e pazzi ispirati. Per finanziare i loro tours non hanno grosse spese, a parte i costi di benzina e gli attrezzi da lavoro che cercano di coprire vendendo birra oppure organizzando raves a pagamento. E quando non sono in tour si finanziano costruendo su ordinazione sedie e tavoli, oppure vendendo le sculture ai club, compagnie cinematografiche e a volte a qualcuno che deve produrre videoclip.
E in un vecchio trattore inutilizzato si è sistemato Reverend Mutant Preacher King Mutoid Obi alias Joe Rush che riferisce sulla mutazione. La lezione è questa: "Necessità del cambiamento". Per la maggioranza il bus è niente più che un mezzo di trasporto a poco prezzo, ma per i M.W.C. il bus è il nocciolo della loro filosofia, dove si vede combinata la doppia funzione di mutazione e mobilità.
La M.W.C. crea un'avvincente provocazione, una variopinta mutazione di ambiente. Il road-show si parcheggia in vecchi supermarket, cantieri in rovina, vecchi hangar per bus, parcheggi inutilizzati ecc. Questa loro mobilità consente alla Company di disporre sempre nuovi spazi e di occupare dei posti che altre persone non potrebbero usare, ma che loro, mutati alla vita della wasteland , adoperano. E la loro mobilità parla per loro stessi: la mutazione è una faccenda complessa. Joe cerca di spiegare la sua filosofia:
"Uomini e cose devono mutare fisicamente e i cambiamenti in un disastro o una post-apocalisse devono essere profondi se si vuole sopravvivere." (Intervista a Joe Rush, tratta da decoder #6 )
Un bus può essere un appartamento o diventare un atelier e i rottami possono essere fonte di sostentamento e ci si può guadagnare vendendoli, oppure essere dei pezzi di ricambio indispensabili o, ancora, sono buoni per fare delle sculture. Un bus può esser dipinto o decorato, in modo che esso stesso diventi un pezzo d'arte e se un bus non può essere lavorato se ne possono ricavare dei pezzi che possono essere utilizzati per altre macchine.
"Noi viviamo per questa idea della mutazione dei nostri veicoli e della nostra arte,"
dice Joe,
"l'idea è di rappresentare sempre qualcosa di originale e di lasciarsi trasformare, niente è finito per sempre e la natura delle cose commerciabili è solo pattume: se tu non riesci a lavorare ed a intervenire sopra queste cose avrai solo pattume" (Intervista a Joe Rush, tratta da decoder #6)
La filosofia della mutazione si può rapportare agli uomini e alle cose e soprattutto al mio oggetto di studio: i raves.
"Di questi tempi" dice Joe, "ognuno ha la sua mutazione in se stesso ed essa corrisponderà ai suoi bisogni e al suo lavoro". (Intervista a Joe Rush, tratta da decoder#6)
I M.W.C. hanno dimostrato praticamente che la loro filosofia funziona. In qualche loro manifestazione sembra di riconoscere gli ultimi resti degli hippies anni Sessanta, ma loro sono suscettibili a ogni paragone. Sbaglia chi crede che la Company sia in ferie permanenti. I Mutoid sono un gruppo di lavoro che si dedica alle sue speciali attività con abbastanza impegno da riuscire ad autofinanziarsi. Al contrario degli hippies, loro pensano che non è sufficiente sentirsi alternativi "felici" separati dalla società. Credono nel duro lavoro, anche se la vita nella scala dei valori viene prima del lavoro, e non hanno interesse in tutto ciò che non è compreso nella loro ortodossa ideologia. Ma non credono nemmeno che il loro stile di vita sia una risposta alla crisi in cui è piombato tutto il mondo industriale qui all'Ovest.
Ciò che dicono è che bisogna mutare e lasciarsi mutare. Molte persone che non sono in condizione di affittarsi una casa o di separasi dai propri genitori trovano molto attraente la happy-go-lukky e vengono affascinati dallo stile di vita dei Mutoids, nonostante la mancanza di comfort come la vasca da bagno, elettricità e televisione. A differenza degli altri travellers, i M.W.C hanno meno problemi per far circolare i loro grossi automezzi, perché hanno uno speciale permesso come quello del circo. La loro musica è suonata su strumenti a percussione che hanno realizzato personalmente. E' una musica industriale, quasi un blues da rotaia mischiato con gospel di Neanderthal.
I mutoids non si sentono un gruppo politico, sono completamente coscienti di una scelta, cioè di non essere più politici. Al di fuori di questo pensano che il modo in cui stanno vivendo è una chiara espressione delle loro scelte.
"E' veramente così, il mondo nel quale viviamo sta andando in rovina. Noi esseri umani non possiamo cambiare più niente attraverso la politica. Così cerchiamo, per il tempo che ancora ci rimane, di divertirci il più possibile". (Intervista a Joe Rush, tratta da decoder #6 )
"Io avevo iniziato ad andare al campo dei Mutoid nei primi anni novanta, forse nel '91, però erano stati chiamati per fare uno spettacolo all'interno del festival di teatro che fanno tutti gli anni, e gli avevano dato questa cava per stare lì, preparare lo spettacolo, le sculture, con un officina gigantesca, e quindi va beh; io conosco loro, a livello che li avevo già sentiti nominare quando ero andata in Inghilterra però non l'avevo mai visto. Avevo letto degli articoli, delle cose, fotografie, e mi sembravano della gente pazzesca, capito?
Arrivo lì e in effetti lo spettacolo è stupendo, eccetera. In effetti poi li conosco e sto lì un po' con loro, quell'anno lì, nel frattempo, lo stesso anno, sempre nel '91, loro chiedono al comune di Sant'Arcangelo se potevano tenere come base italiana, perché loro avevano un po' di campi dappertutto, ne avevano a Berlino, a Londra, eccetera, se loro potevano tenersi come campo in Italia la cava, e tramite un affitto, che adesso non so quanto, come, eccetera gli dicono di si. L'anno dopo cosa succede: all'interno del festival di teatro loro fanno l'antifestival, cioè un festival all'interno della loro cava, al di fuori e contro il festival di teatro. Allora mi dicono "dai vieni lì, stai lì e ti accampi lì, ti campeggi lì e stai con noi". Lì iniziano ad esserci le prime feste che duravano tutta la notte con degli amici loro, tra cui - loro poi lavoravano già, nel '92, in Inghilterra con gli Spiral Tribe - infatti poi quando questi ultimi vennero in Italia si stabilirono nel campo dei Mutoid, intorno al novantaquattro.
Però nel novantadue iniziano queste feste che a me sembravano già da fuori di testa. di conseguenza in questo campo ventiquattrore su ventiquattro c'era qualcosa, dallo spettacolo al party la sera, c'era sempre un movimento della madonna. E già lì inizi a dire, ma guarda oh, ma che figata, ma è grandioso.e già era un po' - più che, chiamiamolo rave illegale - era un po' tipo i vecchi free festival che io mi facevo in Inghilterra tipo tre anni prima quando nel '87 ero stata a Londra un anno, e mi sono vissuta tutti i free festival in Inghilterra. Quindi quando io sono arrivata al campo dei mutoid nel '92 era un po' come allora, cioè tutte queste cose free, chi faceva il banchetto col mangiare, chi faceva altro, era tutto un camping free, diciamo, quindi sembrava più un free festival più che un rave, però comunque anche i rave dopo diventano free, no?, free party = rave illegale. Di conseguenza, io mi vivevo tutte queste esperienze che ho vissuto alla fine degli anni ottanta in Inghilterra, le rivivevo in Italia al campo dei mutoid. I DJ che arrivavano da Londra facevano un tipo di musica. era il periodo più che altro della trance, hard trance, eccetera. Perché comunque già una techno alla Spiral Tribe la facevano solo gli Spiral, il resto era tutto trance. E quindi quando riuscivo a farmi le storie coi mutoid io partivo con loro, tipo mi sono fatta due o tre estati in cui sono stata a Berlino.perché comunque rivivevo delle esperienze che mi erano piaciute in Inghilterra, le rivivevo con loro, poi li avevo conosciuti eccetera, quindi quando partivano io, l'anno dopo sono andata, mi sembra, a Berlino con loro, nel '93. Nel '94 arrivano questi Spiral Tribe in Italia, ed è stata proprio.cioè, quando ho sentito la loro musica ho detto: "questa, questa è LA musica, la MIA musica".e i primi party che facevano comunque li facevano sempre coi Mutoid, quindi c'era festa, spettacolo e party dopo. Loro fecero delle cose a Roma perché comunque c'era già la Fintek che era stata occupata, e quindi proprio i primi party illegali sono comunque romani diciamo no? E poi si sono stabiliti anche per un periodo in cascina qua a Milano." (Intervista a Betty)
Per Milano la Mutoid Waste Company è importante perché è stata la scintilla insieme agli Spiral Tribe che ha acceso la miccia della bomba techno, il loro arrivo combinato con l'influenza spiralosa che stava dilagando in Italia, ha dato un nuovo senso alla parola rave, che in Italia prima del loro arrivo aveva un'accezione diversa, cioè quella dell' afterhours da discoteca; loro hanno portato in Italia lo spirito libertario che ha fatto uscire i raves dai centri sociali, quindi ha trasformato le PAZ (zone permanentemente autonome) in TAZ (zone temporaneamente autonome), e quindi più libere, mobili e quindi senza le gerarchie dei collettivi di autogestione dei centri sociali. MWC e Spiral Tribe hanno innescato una reazione a catena che è sfociata nel movimento techno della funny people e in quello che adesso è ormai un rituale fin troppo diffuso.
".si sono stabiliti anche per un periodo in cascina qua a Milano e il primo party illegale fu fatto l'8 luglio novantacinque, quando anche i Mutoid erano qua a Milano per lo spettacolo al Leoncavallo, hanno fato due date al Leoncavallo e poi una festa illegale in capannone occupato a Pero. C'erano qua sia i Mutoid, che erano qua per lo spettacolo, gli Spiral erano posteggiati in cascina, e alla fine erano già qua tutti insieme e hanno detto: "facciamo questo party a Milano no? Non era mai stata fatta questa esperienza a livello così, perché anche Alter8 per esempio dice che i party illegali sono nati dai centri sociali, ma qua a Milano no, il primo party è stato fatto da noi. "Breda" (un ex centro sociale di Milano) è vero poi ha portato avanti il discorso del party illegale, però l'anno dopo. Gli Spiral erano già venuti a suonare al leoncavallo, ma non c'era nessuno, e noi siamo arrivati tipo alla mattina che stavano smontando tutto e ce ne siamo andati via.
Non so se Breda abbia iniziato a portare avanti il discorso prima o dopo gli Spiral Tribe, probabilmente no, magari se non arrivavano loro, quelli di Breda si sarebbero comunque mossi. (Intervista a Betty)
Uno dei primi rave party nel nord Italia si è svolto a Pero, nella periferia di Milano, l'8 luglio del 1995, è stato il primo illegal party al quale ho partecipato, il primo organizzato in un capannone occupato per l'occasione e non in un centro sociale. Questo party è stato un misto di performance teatrale con musica crossover, hardcore, metal e industrial; alcuni membri dei MWC suonavano utilizzando alcuni bidoni di metallo vuoti come tamburi da percussione. Già nel volantino questo rave era indicato come "party e spettacolo" e i mwc nelle due settimane precedenti avevano presentato la loro performance nei centri sociali e nel circuito alternativo milanese, dove avevano distribuito i volantini per il rave dell'8 luglio.
".il primo party proprio illegale è stato quello del luglio '95, mutoid e Spiral Tribe e da allora sono iniziate le feste techno, anche in cascina, anche perché va beh, Breda non c'era, però comunque poi Breda ha portato avanti un bel discorso, sul piano illegale, diciamo, dei party, come centro sociale, però il primo party è stato quello mutoid - spiral tribe, a Pero. A pero perché? Dunque, allora noi eravamo andati, dopo lo spettacolo dei mutoid, si era visto un fabbricone, questa fabbrica abbandonata enorme, veramente grandissima, ed era stata vista da qualche Spiral, mentre passava di li probabilmente per andare in cascina, e allora avevano pensato di farla lì questa festa, e mi ricordo che dopo i due spettacoli del Leoncavallo si decise di preparare tutta la cosa e si va in carovana a occupare il posto di là. Allora entriamo, si entra, è bellissimo grande, infatti ho fatto un casino di riprese.si posteggiano, perché l'avrebbero dovuto fare tipo la settimana dopo, o due settimane dopo, la data non era ancora sicura, volevano vedere quanto tempo ci mettevano a preparare tutto, perché comunque loro avrebbero dovuto preparare sia lo spettacolo che il party e dovevano avere più tempo non potevano andare lì alle sette di sera come si fa adesso fino a mezzanotte, no? Dovevano stare lì un po' di giorni. niente, arriviamo lì e il giorno dopo sono tornata ed era tutto a posto, stavano già preparando tutte le cose, il terzo giorno: una mattina tipo prestissimo mi chiamano e mi dicono " qua c'è un casino di sbirri, e un casino di cose e ci stanno mandando via da 'sto posto". Io all'inizio non sapevo cosa fare, però era come uno sgombero da una occupazione, cioè siccome non si era mai fatta una roba del genere a Milano, ho pensato più che altro a uno sgombero, così ho chiamato subito radio popolare, e il giornalista del manifesto, come si chiama, quello che si interessava sempre di occupazioni . Ho telefonato e sono andata subito a vedere, e va beh, lì sgomberano e mettono tutti in fila e ci scortano fuori Milano; il primo paese fuori Milano da via Ripamonti è Opera. Insomma succede che a Opera ci mollano lì. Cioè gli sbirri ci mollano lì e dicono: "a Milano non potete entrare, appena entrate vi vediamo in giro, vi riconosciamo e vi prendete il foglio di via" (nb si tratta di un convoglio di mezzi pesanti molto pittoreschi che non passa inosservato), quindi niente, ci siamo posteggiati in una specie di. vicino a un centro sportivo, non so, perché abbiamo visto quest'area sotto opera, usciamo dalla tangenziale e ci posteggiamo lì, soltanto che questo era privato, allora infatti un tipo del centro sportivo ci dice: "guardate che oggi pomeriggio voi dovete andare via perché il centro sportivo apre e non potete sostare nel nostro parcheggio", allora telefono ad Atomo e gli faccio: "oh Atomo qui è un casino della madonna, adesso non so, ti racconto un po' cosa è successo." e gli ho raccontato la storia. E lui mi fa "guarda, allora, fate una cosa: andate a posteggiarvi al parcheggio Bellaria, in fondo a via Novara, che era poi il meeting point della festa, perché questo parcheggio era stato costruito per i mondiali di Italia '90, ma adesso ci parcheggiano solo quando ci sono le partite allo stadio Meazza, perché proprio uno non si parcheggia in un posto così fuori città, e poi non ti preoccupare faccio tutto io e vi lasceranno in pace", allora andiamo e nel frattempo lì si cercava qualcosa in zona che non era però nel comune di Milano e abbiamo trovato quella fabbrica a Pero, e si è fatto lì. (Intervista a Betty)
Gli elementi innovativi per gli occhi dei milanesi e soprattutto per me, travolta dal vortice techno, sono stati, prima di tutti; la scelta della zona industriale isolata, l'arrivo in un capannone e la conseguente percezione del fatto che stavamo partecipando ad un evento illegale. Questa percezione è balzata agli occhi grazie all'intervento di una volante dei carabinieri che, trovatasi di fronte a qualcosa di totalmente nuovo ed estraneo alla loro comprensione, non sapeva come comportarsi, ed ha lasciato che questo evento si compisse. Di grandissimo impatto è stato il muro di casse; primo vero totem elettronico espressione di questo technoclan. Industriale futuristico, nel senso decadente che può evocare la visione futuristica della metropoli, e primitivo e minimale allo stesso tempo. L'era del rock da quel giorno è finita per chi a Milano aveva voglia di qualcosa di nuovo.
Dall'inizio degli anni '90 ad oggi, numerosi sono i sound-system italiani diventati operativi sulla scena internazionale, molti si sono sciolti e i loro elementi sono entrati a far parte di altre formazioni, altri sono ancora operativi e continuano ad arricchirsi di nuovi membri e nuova linfa vitale, alcuni sono morti per sempre.
Il movimento rave ha poi intaccato un numero così elevato di regioni e città, tanto da rendere frequente l'accavallamento delle date delle feste illegali, organizzate nella Penisola. Ovviamente questo fenomeno dipende anche dalla varietà musicale, come già ricordato precedentemente. Nella stessa sera possono aver luogo più eventi in più località, promossi da diverse tribes e sound- system . Una sorta di istituzionalizzazione è ravvisabile nella tendenza dei centri sociali occupati a promuovere rave all'interno degli spazi autogestiti.
«Queste feste - scrive Georges Lapassade - non sono necessariamente dei rave nel vero senso della parola, e cioè manifestazioni che si protraggono per più giorni e più notti senza interruzione, organizzate in luoghi che rimangono segreti fino all'ultimo momento (i rave sono illegali, mentre le feste techno dei centri sociali godono per lo meno di una certa tolleranza di fatto: in questo senso il CS svolge un po' la funzione di una discoteca con i prezzi più bassi)» (Lapassade, 1997, pag.106).
Inutile sarebbe fare dell'ironia su questa tendenza dei CS "a cavalcare l'onda" della techno come fenomeno di massa in quanto non è tanto il fine di lucro a essere perseguito quanto quello di creare consenso o sensibilizzare su altre tematiche. E' un modo di attirare il pubblico "indorando la pillola dell'impegno politico" che altrimenti non troverebbe ascolto.
Nel 1789 un solo pittore, ostile all'astrazione idealizzante, resta appassionatamente legato al color e all'ombra, al punto di apparire come l'assoluta antitesi di quanto sognano i neoclassici: Goya. Rifiutando la visitazione dell'antichità, meditando sul mistero ella materia (materia delle cose, materia della pittura), attraversa, nella sua prodigiosa carriera, tutto l'intervallo che separa il rococò dalla pittura moderna.
Nel 1789 Goya è destinato a un'evoluzione che lo allontanerà dallo stile dei suoi esordi. Non solo per la sordità comparsa dopo la malattia del 1793, ma anche per la straordinaria trasformazione stilistica attuata in pochi decenni. Questo artista chiuso nella solitudine sviluppa nella sua produzione un mondo autonomo, con degli strumenti che l'immaginazione, la volontà e una sorta di furore inventivo non cessano di arricchire e di modificare, al di là di ogni linguaggio preesistente. La modernità di Goya risiede in quel rinnovamento avventuroso che lo conduce verso un universo sconosciuto, che lo porta ad affrontare sgomento il possibile e l'impossibile; risiede nella risoluzione personalissima di far fronte al dolore del momento storico con tutte le risorse della sua singolare sensibilità e della sua arte. Egli si allontana dal "gusto" del suo tempo, e rinnegherà la sua prima maniera, per non essere altri che se stesso -Goya- nella libertà totale dell'espressione, e nella solitudine dell'inflessibile testimonianza. Il suo destino, in realtà comporta al medesimo tempo il distacco e il combattimento, la profonda originalità del linguaggio pittorico e
la preoccupazione di non schivare il tormento del suo paese e del suo tempo.
Nella sua opera incontriamo, profondamente intrecciate, fino all’angoscia, la
preoccupazione della libertà politica, la violenta libertà dell’immaginazione
tematica, e quella libertà del “tocco”, che si manifesta nell’azione stessa del
pennello, della matita o della penna. L’indipendenza estrema dell’espressione
qui è propria di un uomo che ha conosciuto la maggiore dipendenza. I suoi
ritratti, sanno mettere in evidenza un che di impenetrabile e ansioso, a volte
addirittura una specie di fissa aggressività, di potenzialità odiosa.
Fin dall’inizio Goya mette in scena esseri ottenebrati dalla
malinconia, spettacoli violenti, incidenti, assassini: E’ vero, molte scene ci
colpiranno dapprima per un aspetto di levità aggrazziata e quasi gratuita, che
concilia il verismo terreno con un incanto un po’ rapido: le scene sembrano
fissare un istante in cui la vita fuggevolmente raggiungono la pienezza del
piacere ma, a volte ci assilla l’idea del rovescio nero di quel che si offre
nell’opulenza luminosa della vita sensibile.
Nella Prateria di San Isidro, Goya, dipinge il disperdersi di una folla
riunita, il multicolore brusio, disponendo una vasta fuga di spazio, la cui
tranquillità contrasta con l’agitazione popolare. Ci si incanta a vedere la
corrispondenza del luccichio dolce del fiume (il Manzanarre) con il riflesso
setoso dei parasoli e delle vesti. Ma in questa adunanza di persone non regnano
né gioia né unanime fervore; gli uomini e le donne si espongono a incontri
regolati dal caso; e di quel caso, di cui qui noi scorgiamo il volto benevolo,
tutto ci lascia indovinare che esiste anche il volto tenebroso.
Altro supplizio simulato, quello che subisce il Fantoccio: mentre le fanciulle ridenti
–fresche streghe- formano con le braccia l’immagine di una ghirlanda, il
burattino obliquo, proiettato verso l’alto, presenta l’aspetto della
disperazione. La torsione, la goffaggine, l’inerzia dolorosa del personaggio
fittizio ci rivelano la strana vita
della materia –la sua comicità e il suo potere di incutere timore. La scena frivola
comporta un segreto spavento, per via dell’animazione che assume tutt’intera la
creatura librata alla sua fatalità di oggetto. Ritroviamo qui, nel suo senso
più profondo, l’ombra, quella che l’arte neoclassica cerca di padroneggiare o
di bandire (fuggire, grazie alla pura forma, la fatalità oscura della materia:
questa è la sua ambizione più costante). Di fatto, Goya forse non soffre minor
angoscia di fronte alle tenebre della materia, ma sceglie di affrontarle, non
di reprimerle.
Nel 1789 Goya non è ancora altro che un pittore innamorato del
colore e occorreranno le influenze congiunte della malattia del 1792-1793 e del
grande sconvolgimento politico del tempo, perché Goya lasci apertamente
affiorare, nei quadri e nelle incisioni, un elemento inquietante fino allora
dissimulato nell’aura segreta delle sue opere.
L’inconscio pare prendere il sopravvento. Lo spettatore,
a prima vista, può credere che un sogno
amaro e grottesco, favorito da un profondo smarrimento, si impadronisca
dell’animo del pittore. Ma sarebbe anacronistico applicare a Goya
un’interpretazione ereditata dalla tradizione romantica e dal suo succedano
surrealista. Le opere più strane di Goya non obbediscono al solo dettato del
sogno. Bisogna capirle partendo da un doppio postulato sorto dallo spirito dei
“lumi”: la lotta contro le tenebre, cioè contro la superstizione, la tirannide,
l’impostura –e il ritorno all’origine. Doppio postulato che, lo vedremo, sfocia
in un’ibrida creazione.
E’ il liberale, l’amico dei pensatori illuminati che
incomincia a denunciare il male, la stupidità, l’ostinazione ottusa; uomo della
ragione, mostrerà apertamente le figure grottesche che nascono dal sonno della
ragione. Farà la satira delle larve notturne e non esita a spingere il sarcasmo
fino al punto di maggior violenza: Per ridicolizzare le creature della notte,
dirige contro di esse un’aggressività che comporta, nel suo stesso furore, un
che di notturno. Il mito solare della Rivoluzione si era compiuto nell’idea
dell’inconsistenza delle tenebre: la Ragione non aveva che da mostrarsi, sostenuta
dalla volontà, e le tenebre si sarebbero dissolte.
Goya, dicevamo, rifiuta l’attardarsi nell’Antichità che per
quasi tutti i suoi contemporanei è la condizione necessaria al perseguimento
del bello. La denuncia delle tenebre provoca un rigoglio di creature bestiali.
Il ricorso all’origine si volge verso le fonti profonde della vita. Ecco il
punto dell’ibridazione, la singolare confluenza ove, in Goya, i colori della
vita vengono a mescolarsi con le ombre del male. Come stupirsi, a questo punto,
se le figure condannate dalla ragione si animano di una impetuosa vitalità? E
se le immagine dell’origine sono contaminate da risibile orrore? Scorgerà così
l’immagine spaventosa e grottesca di un’origine divorante: Saturno.
Nel quadro delle fucilazioni del 3 maggio 1808: il gruppo
ritmato e disciplinato dei soldati del plotone di esecuzione raffigura una
demente razionalità; la regolarità, l’ordine (che avrebbero dovuto segnare il
trionfo dei principi) giungono solo per regolare l’esercizio della violenza.
Grazie all’obliquità conferita alla scena. Goya nasconde il volto degli ussari
francesci: essi non appaiono che di profilo, il controluce rispetto alla
sinistra lanterna posata ai loro piedi: di loro scorgiamo solo
l’equipaggiamento: fucili sciaccò, buffetteria, cappotti, sciabole. Sono in
primo piano, ma tutto, in essi, risponde e si accorda al cielo notturno che
domina il fondo della scena. La luce, invece, aderisce e si associa al gruppo
delle vittime, e più particolarmente all’uomo del popolo che sta per essere
abbattuto dalla scarica imminente: Goya ha saputo dare al suo volto privo di
bellezza l’espressione semplice che è al di là del coraggio e dello spavento;
con le braccia protese nell’atteggiamento della crocifissione, con le mani
trafitte, questo spagnolo dai lineamenti grossolani assume improvvisamente la
dimensione, dell’Uomo umiliato dall’uomo. La luce che parte, come è ovvio,
dalla lanterna, allo spettatore pare che emani dalla camicia bianca del
suppliziato. Di fronte alla volontà meccanizzata del plotone di esecuzione,
assistiamo alla tragedia della volontà vana, incapace di stornare la morte, non
potrà essere mai raggiunta né distrutta dalla morte. Egli la fa eterna. Qui si
tratta di un uomo oscuro, il cui nome e la cui identità non ci vengono trasmessi.
Così si richiama la nostra attenzione al valore più elementare, alla libertà
che non si può separare dell’esistenza più comune. L’uomo scopre in sé una
dimensione spirituale mediante cui supera le forze cosmiche, o le violenze
storiche dalle quali è schiacciato. La bufera e la tempesta, come la pallottola
e la mannaia annunciano l’annientamento della nostra esistenza sensibile, ma
risvegliano in noi la certezza di sfuggire ai limiti che essa ci impone.
Solo i pittori capaci di restituire al mondo materiale tutta
la sua selvatichezza, tutta la sua inestricabile ricchezza di colori, di luci,
e di tenebre mescolati hanno potuto far apparire l’invisibile presenza della
“libertà morale”. Perché la più alta libertà –nell’invenzione delle forme come
nei sentimenti interiori- non è data che gli artisti che hanno accettato la
fatalità della materia e dell’evento, e che hanno saputo rispondere lealmente
alla loro sfida.