giovedì 6 febbraio 2014

GOYA: violenta libertà d'immaginazione tematica e di tocco


Nel 1789 un solo pittore, ostile all'astrazione idealizzante, resta appassionatamente legato al color e all'ombra, al punto di apparire come l'assoluta antitesi di quanto sognano i neoclassici: Goya. Rifiutando la visitazione dell'antichità, meditando sul mistero ella materia (materia delle cose, materia della pittura), attraversa, nella sua prodigiosa carriera, tutto l'intervallo che separa il rococò dalla pittura moderna.
Nel 1789 Goya è destinato a un'evoluzione che lo allontanerà dallo stile dei suoi esordi. Non solo per la sordità comparsa dopo la malattia del 1793, ma anche per la straordinaria trasformazione stilistica attuata in pochi decenni. Questo artista chiuso nella solitudine sviluppa nella sua produzione un mondo autonomo, con degli strumenti che l'immaginazione, la volontà e una sorta di furore inventivo non cessano di arricchire e di modificare, al di là di ogni linguaggio preesistente. La modernità di Goya risiede in quel rinnovamento avventuroso che lo conduce verso un universo sconosciuto, che lo porta ad affrontare sgomento il possibile e l'impossibile; risiede nella risoluzione personalissima di far fronte al dolore del momento storico con tutte le risorse della sua singolare sensibilità e della sua arte. Egli si allontana dal "gusto" del suo tempo, e rinnegherà la sua prima maniera, per non essere altri che se stesso -Goya- nella libertà totale dell'espressione, e nella solitudine dell'inflessibile testimonianza. Il suo destino, in realtà comporta al medesimo tempo il distacco e il combattimento, la profonda originalità del linguaggio pittorico e la preoccupazione di non schivare il tormento del suo paese e del suo tempo. Nella sua opera incontriamo, profondamente intrecciate, fino all’angoscia, la preoccupazione della libertà politica, la violenta libertà dell’immaginazione tematica, e quella libertà del “tocco”, che si manifesta nell’azione stessa del pennello, della matita o della penna. L’indipendenza estrema dell’espressione qui è propria di un uomo che ha conosciuto la maggiore dipendenza. I suoi ritratti, sanno mettere in evidenza un che di impenetrabile e ansioso, a volte addirittura una specie di fissa aggressività, di potenzialità odiosa.



Fin dall’inizio Goya mette in scena esseri ottenebrati dalla malinconia, spettacoli violenti, incidenti, assassini: E’ vero, molte scene ci colpiranno dapprima per un aspetto di levità aggrazziata e quasi gratuita, che concilia il verismo terreno con un incanto un po’ rapido: le scene sembrano fissare un istante in cui la vita fuggevolmente raggiungono la pienezza del piacere ma, a volte ci assilla l’idea del rovescio nero di quel che si offre nell’opulenza luminosa della vita sensibile.


Nella Prateria di San Isidro, Goya, dipinge il disperdersi di una folla riunita, il multicolore brusio, disponendo una vasta fuga di spazio, la cui tranquillità contrasta con l’agitazione popolare. Ci si incanta a vedere la corrispondenza del luccichio dolce del fiume (il Manzanarre) con il riflesso setoso dei parasoli e delle vesti. Ma in questa adunanza di persone non regnano né gioia né unanime fervore; gli uomini e le donne si espongono a incontri regolati dal caso; e di quel caso, di cui qui noi scorgiamo il volto benevolo, tutto ci lascia indovinare che esiste anche il volto tenebroso.


Altro supplizio simulato, quello che subisce il Fantoccio: mentre le fanciulle ridenti –fresche streghe- formano con le braccia l’immagine di una ghirlanda, il burattino obliquo, proiettato verso l’alto, presenta l’aspetto della disperazione. La torsione, la goffaggine, l’inerzia dolorosa del personaggio fittizio ci  rivelano la strana vita della materia –la sua comicità e il suo potere di incutere timore. La scena frivola comporta un segreto spavento, per via dell’animazione che assume tutt’intera la creatura librata alla sua fatalità di oggetto. Ritroviamo qui, nel suo senso più profondo, l’ombra, quella che l’arte neoclassica cerca di padroneggiare o di bandire (fuggire, grazie alla pura forma, la fatalità oscura della materia: questa è la sua ambizione più costante). Di fatto, Goya forse non soffre minor angoscia di fronte alle tenebre della materia, ma sceglie di affrontarle, non di reprimerle.


Nel 1789 Goya non è ancora altro che un pittore innamorato del colore e occorreranno le influenze congiunte della malattia del 1792-1793 e del grande sconvolgimento politico del tempo, perché Goya lasci apertamente affiorare, nei quadri e nelle incisioni, un elemento inquietante fino allora dissimulato nell’aura segreta delle sue opere.
L’inconscio pare prendere il sopravvento. Lo spettatore, a  prima vista, può credere che un sogno amaro e grottesco, favorito da un profondo smarrimento, si impadronisca dell’animo del pittore. Ma sarebbe anacronistico applicare a Goya un’interpretazione ereditata dalla tradizione romantica e dal suo succedano surrealista. Le opere più strane di Goya non obbediscono al solo dettato del sogno. Bisogna capirle partendo da un doppio postulato sorto dallo spirito dei “lumi”: la lotta contro le tenebre, cioè contro la superstizione, la tirannide, l’impostura –e il ritorno all’origine. Doppio postulato che, lo vedremo, sfocia in un’ibrida creazione.


E’ il liberale, l’amico dei pensatori illuminati che incomincia a denunciare il male, la stupidità, l’ostinazione ottusa; uomo della ragione, mostrerà apertamente le figure grottesche che nascono dal sonno della ragione. Farà la satira delle larve notturne e non esita a spingere il sarcasmo fino al punto di maggior violenza: Per ridicolizzare le creature della notte, dirige contro di esse un’aggressività che comporta, nel suo stesso furore, un che di notturno. Il mito solare della Rivoluzione si era compiuto nell’idea dell’inconsistenza delle tenebre: la Ragione non aveva che da mostrarsi, sostenuta dalla volontà, e le tenebre si sarebbero dissolte.
Goya, dicevamo, rifiuta l’attardarsi nell’Antichità che per quasi tutti i suoi contemporanei è la condizione necessaria al perseguimento del bello. La denuncia delle tenebre provoca un rigoglio di creature bestiali. Il ricorso all’origine si volge verso le fonti profonde della vita. Ecco il punto dell’ibridazione, la singolare confluenza ove, in Goya, i colori della vita vengono a mescolarsi con le ombre del male. Come stupirsi, a questo punto, se le figure condannate dalla ragione si animano di una impetuosa vitalità? E se le immagine dell’origine sono contaminate da risibile orrore? Scorgerà così l’immagine spaventosa e grottesca di un’origine divorante: Saturno.


Nel quadro delle fucilazioni del 3 maggio 1808: il gruppo ritmato e disciplinato dei soldati del plotone di esecuzione raffigura una demente razionalità; la regolarità, l’ordine (che avrebbero dovuto segnare il trionfo dei principi) giungono solo per regolare l’esercizio della violenza. Grazie all’obliquità conferita alla scena. Goya nasconde il volto degli ussari francesci: essi non appaiono che di profilo, il controluce rispetto alla sinistra lanterna posata ai loro piedi: di loro scorgiamo solo l’equipaggiamento: fucili sciaccò, buffetteria, cappotti, sciabole. Sono in primo piano, ma tutto, in essi, risponde e si accorda al cielo notturno che domina il fondo della scena. La luce, invece, aderisce e si associa al gruppo delle vittime, e più particolarmente all’uomo del popolo che sta per essere abbattuto dalla scarica imminente: Goya ha saputo dare al suo volto privo di bellezza l’espressione semplice che è al di là del coraggio e dello spavento; con le braccia protese nell’atteggiamento della crocifissione, con le mani trafitte, questo spagnolo dai lineamenti grossolani assume improvvisamente la dimensione, dell’Uomo umiliato dall’uomo. La luce che parte, come è ovvio, dalla lanterna, allo spettatore pare che emani dalla camicia bianca del suppliziato. Di fronte alla volontà meccanizzata del plotone di esecuzione, assistiamo alla tragedia della volontà vana, incapace di stornare la morte, non potrà essere mai raggiunta né distrutta dalla morte. Egli la fa eterna. Qui si tratta di un uomo oscuro, il cui nome e la cui identità non ci vengono trasmessi. Così si richiama la nostra attenzione al valore più elementare, alla libertà che non si può separare dell’esistenza più comune. L’uomo scopre in sé una dimensione spirituale mediante cui supera le forze cosmiche, o le violenze storiche dalle quali è schiacciato. La bufera e la tempesta, come la pallottola e la mannaia annunciano l’annientamento della nostra esistenza sensibile, ma risvegliano in noi la certezza di sfuggire ai limiti  che essa ci impone.
Solo i pittori capaci di restituire al mondo materiale tutta la sua selvatichezza, tutta la sua inestricabile ricchezza di colori, di luci, e di tenebre mescolati hanno potuto far apparire l’invisibile presenza della “libertà morale”. Perché la più alta libertà –nell’invenzione delle forme come nei sentimenti interiori- non è data che gli artisti che hanno accettato la fatalità della materia e dell’evento, e che hanno saputo rispondere lealmente alla loro sfida.

-di Jean Starobinski-









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