venerdì 31 gennaio 2014

DIANE ARBUS: parabola artistica del proibito, del male:




L’opera di quest’artista, col suo allontanarsi da ogni schema precostituito, ha rappresentato un momento di profondo cambiamento tanto nei codici linguistici della fotografia, quanto nella percezione comune della realtà.

Diane Arbus lavorò a lungo tempo accanto a suo marito nel campo della moda da cui imparò il mestiere di fotografa.
Durante gli anni ’50 stanca di quel rigore formale e di quella perfezione tecnica, assetata di immagini più reali e immediate, stanca di quella sistematica falsificazione cosmetica del reale comincia a dedicarsi ad una ricerca più personale: “scoprire ciò che non hai mai fotografato e di cui hai paura”.
Così facendo, s’inserirà in una ben precisa tendenza del periodo a reagire contro le rassicuranti e noiose convenzioni borghesi: per primi gli esponenti della beat generation rifiutano i modelli di vita precostituiti; poi Andy Wahrole la sua Factory, che esasperano i meccanismi della pubblicità, per sovvertire l’immagine accettata della nuova società dei consumi dall’interno e con le sue stesse armi. Arbus (che ha pure occasione di frequentare i pop artist), sceglie, però, con l’evidenza fotografica di orrori (dai quali il privilegio sociale l’ha protetta) di schierarsi più scopertamente ed attivamente contro ogni moralismo. Ciò le varrà un costante disprezzo da parte dei benpensanti, che sputeranno letteralmente sulle sue opere esposte per la prima volta nel ‘65 al Museum of Modern Art di New York; ma anche un continuo appoggio ed incoraggiamento da parte dei suoi amici fotografi ed intellettuali.
Walker Evans, suo grande estimatore, vedrà in lei una specie di Diana “cacciatrice d’immagini”, e ne scriverà: “La sua originalità è nel suo occhio, spesso rivolto al grottesco e all’audace, un occhio coltivato… per mostrarti la paura perfino in una manciata di polvere”.
Fotografa colta e raffinata, procede durante gli anni verso una semplificazione formale, attraversando un primo periodo caratterizzato da immagini sgranate e fortemente contrastate a causa di esposizioni approssimative. I suoi temi sono allora quelli, che la renderanno celebre, del “submondo” dei freaks.
Quelle “meraviglie” che l’avevano impressionata alla visione dell’omonimo film, girato nel 1932, da Tod Browning, scopre di poter incontrare quotidianamente a Coney Island, benché in quel periodo i freakshow siano proibiti. E’ lì, infatti, che si reca per conoscere le sventurate vittime di congenite deformità e gli individui eccentrici, che ritrarrà di preferenza nelle loro abitazioni e camere da letto, ad ulteriore testimonianza, qualora le fotografie potessero lasciar spazio al minimo dubbio, del grado d’intimità che riesce ad instaurare con i propri soggetti.
L’uso del “medio formato”, dal 1962 in poi, rivoluziona totalmente il suo modo di fotografare, soddisfacendo le sue nuove esigenze espressive: una chiarezza dell’immagine ed una definizione a prova di ingrandimento, ma ancor di più uno spazio quadrato, simmetrico, che avrebbe dato massima importanza al soggetto, posto frontalmente al centro della fotografia.
Come l’amico Richard Avedon, Diane Arbus ammira e studia, l’opera di August Sander, con le sue composizioni classiche nelle quali le persone ritratte si porgevano guardando allo spettatore, in piedi al centro di un sobrio sfondo. Memore dell’insegnamento di Lisette Model, per la quale la fotografia doveva essere uno strumento d’investigazione, Arbus non cerca però, come Sander, una classificazione “scientifica” (e quindi freddamente oggettiva) del genere umano, ma piuttosto uno scambio d’emozioni fra fotografo e fotografato.
Nelle sue opere troviamo sempre il rapporto diretto di uno sguardo rivelatore, che probabilmente riesce ad ottenere – oltre che con la sua, da molti testimoniata, innata capacità di mettere la gente a proprio agio – anche grazie alla scarsa carica aggressiva del tipo di attrezzatura fotografica di cui fa uso: le sue macchine 6×6, Rolleiflex o Mamiya dal mirino a pozzetto, non incombono psicologicamente, e la fotografa, a capo chino, non mette in soggezione, scrutandolo direttamente, chi posa. Queste macchine sono un limite psicologico posto a tutela reciproca.
Nonostante si voglia continuare a credere, nella migliore tradizione romantica, che Arbus non potrà salvarsi da una partecipazione emotiva, che la consumerà nell’anima, sta di fatto che nel suo lavoro colpisce proprio l’evidente esistenza di “un’empatia non sentimentale”: una forma di reciproca accettazione, in virtù della quale la fotografa non mostra compassione per i fotografati, che non la chiedono, perché non esprimono disagio o sofferenza per il proprio esser “strani”, quasi lo apparissero solo ai nostri occhi.
Il suo stile illusoriamente semplice e classico conferisce un’incongruente solennità agli individui particolari che per lei posano guardando al suo obiettivo senza inibizioni, siano essi ermafroditi, nudisti, gemelli, strane coppie borghesi, insoliti bambini o giovani manifestanti pro o contro la guerra del Vietnam. Un’importanza accentuata successivamente dal bordo nero che contornerà le sue immagini più note, sempre stampate “full frame”.
In esse, una particolare qualità di “misterioso realismo”, un levigato e quasi magrittiano surrealismo, è ottenuta grazie all’uso del flash di schiarita (un’innovazione assoluta per quel tempo, che avrà poi fin troppi imitatori), col quale stacca i soggetti dal fondo per portarli su un altro piano, talora anche a livello concettuale: in un’immagine come “Young Brooklyn Family Going for a Sunday Outing” del 1966, tal effetto espressivo balza all’occhio con maggior evidenza, poiché appare chiaro come differenze d’abito e d’atteggiamento siano esaltate tramite la luce del flash, e la moglie col piccolo in braccio colpita da una luce più forte ed irreale risulti “distante” dal marito che tiene il figlio per mano.L’opera di Diane Arbus è, come sempre accade per gli artisti che sono più realmente innovativi, frutto di un ben determinato momento storico e di un certo tipo di società, Susan Sontag, tuttavia, nel suo libro “Sulla fotografia”, dedicandole alcune pagine dense di riflessioni illuminanti, tenta anche d’ipotizzare motivazioni più strettamente personali per spiegare l’aperta “rivolta rabbiosamente moralistica” contro il mondo del successo da parte di Arbus: forse una forma di “analgesia emotiva o sensoriale” l’avrebbe portata, piuttosto che non provare nulla, all’insistente ricerca della sofferenza attraverso soggetti carichi d’un vissuto drammatico; forse, al contrario, potrebbe aver tentato, sentendo troppo, di abituarsi a quegli orrori, il cui “malefico fascino” trovava irresistibile, ritrovandosi in ciò perfettamente in linea con gran parte dell’arte moderna, la quale ha continuato ad abbassare progressivamente “la soglia del terribile”, modificando la morale e denunciando l’arbitrarietà dei tabù, proprio come la fotografia di Arbus ha fatto.




giovedì 30 gennaio 2014

VENUS IN FURS



Venus in Furs è un brano musicale del gruppo rock d'avanguardia The Velvet Underground, scritto da Lou Reed e originariamente pubblicato sul loro album di debutto del 1967 The Velvet Underground & Nico. La canzone trae ispirazione dal romanzo Venere in pelliccia scritto da Leopold von Sacher-Masoch, includendo nel testo accenni al sadomasochismo, al bondage e alla dominazione/sottomissione sessuale.

La canzone, la cui composizione risale al 1965, è la prima descrizione esplicita di un rapporto sadomasochistico padrone-servo mai apparsa in un brano di musica rock. Lou Reed si ritaglia il ruolo di spettatore che incita l'azione tra i due amanti, identificandosi prima con la dominatrice e poi con il suo fedele "schiavo". L'ossessiva cadenza musicale evoca un clima morboso e perverso che ben si adatta alla scena descritta. Non manca però una nota malinconica nel finale, il gioco d'amore non è erotismo spensierato, ma un disperato tentativo di fuggire dalla monotonia dell'ordinario, da un'angosciata esistenza incanalata nei dettami di una vita borghese: «I am tired, I am weary / I could sleep for a thousand years / A thousand dreams that would awake me / Different colours made of tears» (Sono stanco, sono esausto / Potrei dormire per un migliaio di anni / Un migliaio sono i sogni che potrebbero svegliarmi / Colori differenti, fatti di lacrime). Solo attraverso il sogno è possibile evadere dal quotidiano, provando nuove sensazioni attraverso il dolore.
Il brano era un appuntamento fisso durante gli show dell'Exploding Plastic Inevitable, dove veniva eseguita dal gruppo mentre i ballerini Gerard Malanga e Mary Voronow, entrambi muniti di fruste, interpretavano i personaggi del testo.

Naji al-Ali: HANDALA



Naji Al-Ali è cresciuto fino a diventare forse il cartoonist più popolare nel mondo arabo. Con onestà brutale, Naji Al-Ali ha analizzato le relazioni tra i governi degli Stati Uniti, Israele, i regimi arabi e le conseguenze per i palestinesi.Time Magazine lo ha descritto dicendo: «Costui disegna con ossa umane." Il giornale Asahi in Giappone scrisse: "Naji Al-Ali disegna con acido fosforico."

Il 22 luglio 1987 a Londra, Naji Al-Ali fu assassinato mentre camminava verso gli uffici del quotidiano Al-Qabas. Morì in ospedale il 29 agosto. Il suo assassino non è mai stato arrestato.


 Dal 1975 al 1987 Naji Al-Ali ha creato vignette che raffigurano la complessità della situazione dei profughi palestinesi. Queste vignette sono ancora attuali e Handala, il bambino profugo che è presente in ogni cartone animato, rimane un potente simbolo della lotta del popolo palestinese per la giustizia e l'autodeterminazione.
Naji Al-Ali ha scritto: "Il bambino Handala è la mia firma, tutti mi chiede di lui ovunque io vada. Ho dato alla luce questo bambino nel Golfo e lo presentai al popolo. Il suo nome è Handala e ha promesso al popolo che egli rimarrà fedele a se stesso. L'ho disegnato come un bambino che non è bella, i capelli è come i capelli di un riccio che usa le sue spine come arma. Handala non è un bambino grasso, felice, rilassato, o coccolati. Egli è a piedi nudi come i bambini dei campi profughi, e lui è un'icona che mi protegge dal commettere errori. Anche se lui è ruvido, egli sa di ambra. Le sue mani sono giunte dietro la schiena come un segno di rifiuto nel momento in cui le soluzioni ci sono presentate alla maniera americano. "
Handala è nato dieci anni fa, e lui avrà sempre dieci anni. A quell'età, ho lasciato la mia terra, e quando tornerò, Handala avrà ancora dieci anni, e poi inizierà a crescere. Le leggi della natura non si applicano a lui. Lui è unico. Le cose diventeranno di nuovo normali quando la patria ritornerà.
Io lo presentai ai poveri e lo nominai Handala come simbolo di amarezza. Inizialmente era un bambino palestinese, ma il suo significato si è sviluppato con un orizzonte prima nazionale, poi globale e umano. È un semplice bambino povero, e questa è la ragione per la quale le persone lo hanno adottato e lo sentono come simbolo della loro coscienza